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L'ineffabile Bruno Cassese
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L'ineffabile Bruno Cassese

Il racconto breve, che, di seguito, mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione ed alla vostra pazienza, e che si svolge tra Orbetello, Roma e Civitavecchia, tratta di un fatto vero, che, pur nella sua unicità di evento, costituisce uno "spaccato" della triste condizione della nostra società, che vede la gente comune abbandonata a se stessa, alla mercé di chi dovrebbe essere a sua disposizione, in quanto dipendente pubblico, finché, d'improvviso, un giorno una specie di santo esaltato, decide d'occuparsene e, per questo, finisce sotto cura psichiatrica.

L’ INEFFABILE BRUNO CASSESE DI CIVITAVECCHIA

E siccome emerse, tramite Interpol, che Bruno Cassese, da Civitavecchia, alcuni anni addietro, in Germania, s’era macchiato d’una venalissima infrazione, per la quale era stato rimandato in Italia, già prima di mezzogiorno, prima cioè che qualcuno avvisasse dell’accaduto gli amici (che l’avevano atteso invano per l’intera nottata) affinché potessero allertare un avvocato, il “nostro” si trovava già, del tutto ingiustamente, sia perché lo scassato “velocipede” era stato abbandonato a bordo strada, sia perché il proprietario era un suo vecchio compagno di baldorie, duramente “ristretto”, quale “flagrante di reato” presso il carcere mandamentale di Grosseto, in quanto autore di “Furto di bicicletta”, compiuto nottetempo, per mancanza di bus di linea, non solo privo dell’attenuante prevista per il “Furto d’uso”, ma, addirittura con l’aggravante determinata dal fatto che quella sottospecie di bicicletta, in quanto lasciata incustodita per via, era da considerarsi “esposta alla pubblica fede”.

Mobilitato, quindi, da comuni amici, li aiutai a trovare un difensore che lo “tutelasse” ed ottenesse, quantomeno, che fosse rilasciato a piede libero, in attesa di giudizio. Giudizio che, poi, fu, comunque, pronunziato (con sentenza di condanna, ancorché minima) al termine d’un processo, a mio parere, kafkiano.

Divenimmo, quindi, strettamente legati e ci frequentammo, sia in Maremma, che a Roma, quando anch’io ebbi a trasferirmi nella capitale.

Questi, dunque, dopo la necessaria premessa, utile a far, comunque, entrare Bruno, ancorché logisticamente estraneo al mio ambiente giovanile, nel novero delle persone che “animano” i miei ricordi, i fatti relativi al successivo, quanto esemplare “Caso Cassese”.

Bruno, non ostante la penosa vicenda giudiziaria di cui era stato vittima, avendo, in seguito, vinto un concorso per autisti di autobus, indetto dalla società dei trasporti urbani di Roma (A.T.A.C.), venne assunto, in pianta stabile, alle dipendenze della municipalizzata.

Ebbene, quando già s’era sposato e gli era nato un erede maschio, ovvero, dopo diversi anni di servizio, si era, pian piano, convinto, diventando un ineccepibile “uomo morale”, forse anche grazie ai miei frequenti richiami mazziniani, al senso del dovere, che deve distinguere ogni cittadino, del fatto che, ad ogni lavoratore, competa non solo eseguire, al meglio, le incombenze che gli spettano, ma pure che i diritti dell’utente debbano essere rispettati in pieno.

Questo, soprattutto, al cospetto delle inadempienze di molti suoi colleghi che, di converso, sovente, ritardavano la partenza delle corse, perché, una volta giunti al capolinea, in attesa di risalire in vettura, s’intrattenevano, tranquillamente, a fare quattro chiacchierare nel bar di comune riferimento, a mangiare un tramezzino od una pasta, a bere un caffè od un caffellatte, a parlare di sport o di quant’altro all’ordine del giorno della cronaca dei quotidiani, etc., incuranti dei “bisogni” dei passeggeri, magari esposti ai rigori della cattiva stagione od al “solleone”, senza neppure la salvaguardia d’una benché minima pensilina.

Fatto sta che un giorno di libertà, Bruno, trovandosi, in divisa, a passare nei pressi, appunto, del capolinea d’un autobus, ai piedi del quale, stavano rumoreggiando una ventina di persone, in attesa, da più di mezzora, che si “vedesse” un conducente, per farli, intanto salire sul mezzo e, poi, a suo comodo, magari anche viaggiare alla volta delle rispettive destinazioni, pensò bene di surrogare l’evidente “disservizio”, mettendosi al volante e dando inizio alla “corsa” prevista per quella linea.

Di più, avendo preavvertito i passeggeri d’essere disposto a fermare l’autobus dove meglio sarebbe loro convenuto, alla stregua d’un taxista, s’arrestò ogni qualvolta gli veniva chiesto di farlo, fino a quando, praticamente a fine corsa, fu rintracciato, mentre, dopo aver bloccato l’automezzo accanto al marciapiede, fattosi anche carico del pesante bagaglio d’una vecchia e claudicante passeggera, l’accompagnava al suo appartamento, privo d’ascensore, salendo, una ad una ben, quattro rampe di scale.

Trasportato d’urgenza, nonché coattivamente, alla “Neuro”, dopo qualche mese di cure, Bruno, quantunque, irrevocabilmente “appiedato”, riprese il suo lavoro all’ATAC, in un ruolo di carattere amministrativo, svolgendo, comunque e sempre, in modo irreprensibile, le sue mansioni, fino a poco prima della sua, prematura, “dipartita”.

Oggi, all’interno del bel cimitero “panoramico” di Civitavecchia, ove Bruno è sepolto, c’è un’epigrafe del bravo scrittore ed “insegnante”, presso l’Università della Terza Età di Orbetello, Livio Bruni, che lo ricorda, con viva commozione, per quel che l’ineffabile autista di bus della capitale, assai significativamente, valse nella sua breve vita di amico e di lavoratore.