Le teorie più recenti dei filosofi dell’ultima generazione riguardo l’individuazione di una “appartenenza” di un popolo concordano nell’asserire che una civiltà si riconosce non tanto nella comunanza di origini e bisogni, quanto nell’estrapolazione di un nemico comune.
Vale a dire: non sono tanto i legami e le tradizioni dei nostri antenati il collante della società, quanto l’unione davanti a un pericolo o a un’eventuale conquista.
Non è tanto ciò che piace a tenere uniti gli esseri umani, ma le avversità. Ci riconosciamo in quanto “opposti” a un altro. Paradossalmente un essere umano maschio si riconosce in quanto diverso da un essere umano femmina, più che uguale a un altro maschio. Con l’altro maschio, a cui è simile, entra in competizione.
Se partiamo da questo assunto, è d’obbligo la ricerca di un “nemico” allo scopo di capire “chi siamo”.
Ad avvalorare questa teoria ci aiuta la Storia.
Gli antichi Romani non erano certamente un popolo omogeneo ma combattevano insieme alla volta di nuove conquiste.
Lo Stato di Israele si è costituito con genti provenienti da ogni parte del mondo dopo millenni di diaspora, ormai stranieri con in comune una religione – per altro suddivisa in diversi rami – e un nemico che aveva nel frattempo occupato le loro terre.
I grandi dittatori della Storia hanno acquisito potere fornendo alle masse un nemico da odiare o un pericolo da cui proteggersi.
La stessa tattica persuasiva viene oggi usata da capi di governo.
Il mondo è cambiato, ma gli uomini no.
Ci sono persone il cui volto si illumina al momento in cui viene loro prospettato un nemico, come se improvvisamente si sentissero vive, forti, motivate. Lo sanno bene gli adulatori, i “ruffiani” nei posti di lavoro: fornisci al tuo capo un nemico – un concorrente rivale sleale, un dipendente svogliato – e te lo fai amico.
“Tanti nemici tanto onore” era uno dei motti del Duce. Che sapeva bene come infervorare – furbescamente – gli animi.
Ma veramente abbiamo bisogno di un nemico per capire chi siamo? È questo il potere dell’essere umano: il desiderio e l’abilità di combattere sempre e comunque?
E cosa succede quando un nemico non esiste, neanche ad inventarselo?
La Storia ci ha insegnato che la voglia di supremazia che è insita nell’animo dell’animale più intelligente che c’è, faccia sì che gli uomini si diano battaglia in ogni caso (necessità? Legge di sopravvivenza? ), diventando rivali, dividendosi in fazioni e dando luogo a guerre civili. All’interno della propria famiglia, all’interno della proprio città, all’interno del proprio Paese. I fenomeni di beghe familiari – avete mai visto programmi TV come Forum? - , di questioni d’onore come Cosa Nostra – originata dal sistema feudale del latifondo e della mezzadria - , le guerre civili che insanguinano molti Paesi hanno tutti lo stesso fondamento: il desiderio – individuale e sociale -  di affermazione, di potere, di vittoria. Desiderio, spesso, non bisogno primario.
Queste esposte finora sono le ragioni dell’assunto: l’identità comune ha bisogno di un nemico.
E se provassimo a sfatarlo? Se riuscissimo a dire: no, l’identità comune non è l’individuazione di un nemico, ma il riconoscimento di una nascita nello stesso luogo e una sapienza condivisa.
Il fatto è che, obiettivamente, ci sono persone che non godono affatto all’idea di avere un nemico, sia che si tratti di un nemico esterno alla propria società, sia un rivale o un concorrente all’interno di essa. Anzi, se  lo “schema delle percentuali” funziona, queste persone sono la maggioranza. Sono la maggioranza coloro che desiderano “starsene in pace”, che non significa semplicemente starsene nel proprio nido, ma evitare gli invadere lo spazio altrui con piccole faide, concorrenze sleali, dispetti e quant’altro.
Forse questa maggioranza ha solo bisogno di acquisire determinazione, magari solo di capire che “esiste”. Perché anche l’essere una persona “pacifica” e “non determinata” ha il suo lato negativo, il lato oscuro della medaglia. Uso un esempio ben comprensibile e largamente conosciuto: il solito ruffiano abilissimo nelle questioni psicologiche e nel fare mobbing sul posto di lavoro sa bene cosa fare a un collega onesto che potrebbe fare carriera: fargli capire che è antipatico a tutti e quello si auto-eliminerà.
Sono nata all’isola del Giglio. Qual è la mio gruppo di appartenenza? Partendo da lontano: Europea, Italiana, Toscana, Maremmana (cominciamo a riconoscerci in questo “Maremmana”, non è vero?), Isolana. Profondissimamente Isolana.
Quali sono le caratteristiche della gente del mio paese?
Forti e tenaci, discendenti di una progenie che ha dovuto combattere l’isolamento e i pirati. Gente che ha dovuto inventarsi un modus vivendi, un sistema tutto proprio di sopravvivenza che ha reso l’isola autonoma dal punto di vista alimentare e protetta dalle incursioni, nonché dotata di un fatalismo che ha permesso di godersi  “l’attimo fungente” allo stesso tempo di riempire i granai e conservare le vivande.
Tornando al primo assunto, è vero che i Gigliesi si riconoscono nelle avversità, sia che siano venute dal cielo e dalle intemperie marine, sia da un nemico reale che intendeva violentare donne, deportare i giovani, rubare le cibarie.
E’ vero che forse l’ultimo grande momento di comunione è stato nell’estate del 1976, quando tutta la popolazione è insorta contro il confino di due terroristi. I Gigliesi si sono uniti contro un nemico comune, come avevano già fatto in passato.
Oggi non ci sono nemici (visibili) da combattere. Accade ciò che prevede la grande sociologia: ci combattiamo tra di noi.
Tutti?
Stiamo tutti combattendo contro tutti?
Vogliamo dar ragione ai nuovi filosofi (che, ci scommetto, non sono nati su un’isola)?
O c’è qualcuno che non si riconosce in questa teoria e a buon ragione sente di “starsene fuori”?
Qualcuno che sia un “pacifico determinato”?
C’è qualcuno che crede che invece di rubarci i clienti l’un l’altro (la capacità turistica dell’isola è limitata, non perché manchino strutture turistiche, ma perché è cambiato il modo di fare turismo degli Italiani;  aprirne nuove significa suddividere gli introiti) si possa ampliare - ma sarebbe più opportuno dire “differenziare” - il bacino di utenza e si possa costruire qualcosa che veramente rispetti la nostra “Isolanità”?
Io credo che anche la Giglio valga lo “schema delle percentuali” secondo cui la l’umanità, su tutte le scale, viene divisa in 20% e 80%:

la ricchezza del pianeta: il 20% dell’umanità detiene l’80% della ricchezza totale;
popolazione mondiale: il 20% mangia tutti i giorni, l’80% non ha il minimo per sopravvivere;
in un posto di lavoro: le grandi compagnie calcolano, quando stabiliscono i salari, che ci sia un 20% di vagabondi e un 80% di buoni lavoratori (tutti prendono lo stesso stipendio, già calcolato sulla base sopra detta, in modo che non ci siano perdite di rilievo per la compagnia)
attitudini personali: il 20% dell’umanità ha attitudine alla distruzione; l’80% alla costruzione (anche se è vero che il 20% con attitudini distruttive ha forse l’80% del potere, dal momento che distruggere è molto più facile e veloce che costruire)

Verosimilmente anche al Giglio si potrebbero applicare queste percentuali, e scrivere su una lavagna virtuale che il 20% sono cattivi e l’80% buoni, anche se qualcuno più maligno scriverebbe queste percentuali al contrario.
Conclusioni non ne faccio, a parte che sono ottimista e sulla lavagna segnerei 80% di buoni ... spesso purtroppo soltanto buoni propositi mai messi in pratica.
Forse è venuto il momento di risvegliare la bestia (nel senso “buono”) che è in noi.