Sono al Giglio. Apro la finestra. Il mare è azzurro. La Concordia sdraiata, alla Gabbianara. Le musiche sacre di Arvo Pärt si diffondono dalla mia casa trascinandomi lontano, lontano, verso il faro. Capel Rosso mi guarda dal suo occhio infallibile e mi accoglie nella sua grande bellezza. Ho lasciato da poco, o forse da molto, Moby Dick riversa sugli scogli, senza più speranza. Non morta. Non viva. Balena bianca, un tempo sontuosa e regina dei mari. Ora riversa su se stessa. “Amaro e noia la vita, altro mai nulla” mi sussurra ogni volta la sua presenza. Ma il faro è là. Basta una bracciata di mare e sarò salva. Ma a salire le scalette scavate sul granito sono io giovane con lui che non c’è più. Meglio tornare al porto. Meglio salire le scale di via dell’asilo, dove le suore recitano l’Ave Maria, e tornare a casa. Chiudere la finestra del disincanto.

Il film di Sorrentino, con l’immaginifico Servillo che si divide tra la decadente Roma post-barocca-post-moderna e l’isola che “non c’è”, io lo ho seguito sullo schermo come la proiezione onirica della mia vita all’Isola del Giglio. Nido, urna, utero.

Cassandra