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Coclite Muzio Scevola
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C O C L I T E   M U Z I O  S C E V O L A

Nello scambio d’opinioni che c’è stato su “Giglionews”, tra il sottoscritto, Paolo Poli ed Attilio Regolo, scambio nel corso del quale, per attenuare, appena un po’, la “seriosità” dell’argomento che “azzardavamo” trattare, ovvero quello relativo ai destini delle “piattaforme” sovra e sottostrutturali, in quel della “Gabbianara”, accennando alla curiosa coincidenza che i miei interlocutori, del tutto casualmente, si chiamassero, appunto, l’uno Paolo Poli e l’altro Attilio Regolo, m’era venuto da dire che, a quel punto, in considerazione del fatto che, molti anni addietro, ebbi a rompermi la mano destra, senza che, in seguito, l’osso si fosse risaldato a dovere, avrei anche potuto firmarmi Muzio Scevola.

gian piero calchetti isola del giglio giglionewsMuzio Scevola, di cui pure ha scritto Attilio Regolo, nel corso d'una breve riflessione relativa alle sue reminescenze scolastiche, dicendo che era tra i personaggi romani che più l’avevano colpito e di cui gli era rimasta massima considerazione o giù di lì.

Ebbene, visto che io “conosco” una “storia” d’un Coclite Muzio Scevola, del tutto incognita, invece alla gente, perché solo alcuni “intimi” ne sono stati edotti, mi piace qui raccontarvela, nella speranza che ne rideremo insieme.

La storia, vera in senso assoluto, lo garantisco, riguarda una persona d’altissimo talento professionale, un certo Orazio O. (che, ovviamente, non centra niente con “Lhistoire d’O” di Dominique Aury), mio “antico” e stimatissimo amico.

Per dare il senso di quanto Orazio valesse, basta dire che, seppure, poi, ebbe ad esercitare ben altra professione, aveva vinto il concorso pubblico per Funzionario di “massimo” grado, della Camera dei Deputati.

Orazio, finito il corso di studi, in Legge, che, tra l’altro, aveva portato a termine anzitempo, non potendo fruire d’ulteriori dilazioni per il rinvio militare, appena ricevuta la “Cartolina di chiamata” dell’Esercito, si era recato al C.A.R. dove, viste le sue particolari doti di prontezza di riflessi, gli fu, provvisoriamente, attribuito l’incarico di comandante di Carro Armato.

Comando che, però non ebbe mai ad esplicare, in quanto, al momento d’un’accurata e più approfondita selezione del suo curriculum scolastico, un ufficiale di smistamento, lo nominò, sul campo, “Furiere superiore di concetto”, con il grado di Caporalmaggiore, addetto all'archivio delle pratiche d’invalidità, con speciali funzione di controllo ed aggiornamento per i casi di “Aggravamento”.

Come avviene nelle favole, anche nel polveroso ufficio di Orazio, ubicato presso l’affollato e quanto mai disordinato, Distretto militare di Roma, c’era un personaggio, di cui, anche perché non lo conosco, non posso rivelarne il nome, che aveva preso “sottocchio” o “soprocchio”, che, poi, sono la medesima cosa, il nostro giovane e brillante laureato in legge in attesa d’esercitare un importante ruolo amministrativo nel contesto d’uno dei “rami” del Parlamento.

Nella fattispecie, trattavasi d’un anziano e sommamente incolto Maresciallo Maggiore di carriera, reduce dalle guerre d’Africa, che, seppure in subordine rispetto ad un giovane ed intelligente sottotenente di complemento in procinto di diventare “firmaiolo, di cui pure debbo tacere l’identità anagrafica, comandava, appunto e di fatto, il significativo, rispetto alla tutela dei “reduci”, Ufficio Pratiche Aggravamento Invalidità di Guerra.

Da questo stato di cose era derivata ad Orazio una condizione tale, per cui, mentre il Maresciallo lo disprezzava, per molteplici ragioni di status sociale e per essersi laureato con 110 e lode di voto finale (il figlio, per il quale teneva gran “pena”, superate le scuole dell’obbligo, s’era rifiutanto di continuare gli studi, adattandosi a fare il meccanico presso un’officina di second’ordine), il giovane ufficiale di complemento, per motivi d’età, per equipollenza di studi compiuti, per affinità colturali ed anche per collimanza d’idee politiche (ambedue Repubblicani), lo teneva in grande simpatia e, quindi, in gran conto, preferendo far capo, per l’illustrazione delle pratiche cui apporre la sua firma, al nostro, piuttosto che all'anziano militare.

Fatto sta che, per Orazio, la situazione s’era fatta “scomoda” al punto che, ogni qual volta il Sottotenente mancava per qualche giorno dal servizio, gli toccava, per le più diverse ragioni, finire immancabilmente in Cella (C.P.S.), salvo, essere immediatamente rimesso in libertà, al ritorno in caserma dell’Ufficiale.

Questo stato di cose, ovvero questo “andirivieni” tra cella ed ufficio, per un arguto ed intelligente “marmittone”, con grandi prospettiva di carriera nell'amministrazione centrale dello stato, costituiva un cruccio di cui non riusciva a liberarsi, perché si sentiva sostanzialmente perseguitato non ostante non avesse altre colpe che quella di compiere puntualmente il suo dovere di furiere di concetto, gestendo ogni pratica, con puntualità, competenza e precisione.

Inoltre, si sentiva indirettamente colpevole dei rapporti tesi che, fin dai primi giorni in cui aveva messo piede in ufficio, s’erano venuti a determinare tra il giovane Sottotenente e l’anziano Maresciallo, che, pur potendo essergli padre, ogni giorno che Dio metteva in terra, non perdeva occasione per rimproverarlo o punirlo senza motivo, non ostante Orazio cercasse, in ogni modo, d’assecondarlo o di mandargli, come si usa dire, “il vento in poppa”.

Insomma, ogni volta che avevano da “lavorare” insieme, Orazio bussava a cuori e l’altro gli rispondeva a picche.

Non c’era proprio nulla da fare: i rispettivi punti di vista risultavano, immancabilmente, inconciliabili.

E siccome, nell'ambiente militare, non solo “l’anzianità fa grado” (questo, però, vale solo tra i parigrado), ma il grado è pure il baluardo che, a prescindere dagli effettivi valori in campo, fa da scudo insuperabile ad ogni stupidità, ad Orazio toccava sempre soccombere ed inghiottire bocconi amari, soprattutto se mancava il sottotenente, che, in un certo senso, lo salvaguardava da ogni premeditata “incursione” malevola.

Questo, fino al giorno in cui, per caso, riflettendo sul significato del suo nome, storicamente legato alla “famosa disfida” (ben più importante e tragica di quella di Barletta) tra la famiglia romana degli Orazi e quella dei Curiazi, non gli vennero in mente sia Orazio Coclite (che non ostante fosse “monocolo” aveva conteso, con successo, all'Etrusco Porsenna il ponte Sublicio), sia Muzio Scevola, che vuol dire “mancino”, e che, avendo avuto anch'egli a che fare con Porsenna, s’era, appunto “arrostita” la mano destra.

D’improvviso, gli si aprì un mondo.

D’improvviso, folgorato da Orazio Coclite e da Muzio Scevola, colse d’istinto l’opportunità che gli si presentava, per rifarsi delle tante angherie patite e dei tanti giorni di cella che gli erano stati inflitti senza ragione dall’anziano Maresciallo.

Cosa mai, quindi, t’escogitò, per vendicarsi, il Furiere di Concetto Orazio O.?

Predisposta, con fogli del tempo di guerra, invecchiati e dimenticati in un cassetto, più l’ausilio di vecchi timbri rinvenuti all’interno d’una scatola avvolta dalla polvere, una pratica relativa al riconoscimento d’una pensione per invalidità, assegnata al Caporale “carrista” Coclite Muzio Scevola, di Sarzana (provincia di La Spezia), in quanto “Rimasto gravemente ferito al braccio ed all’emitorace destri, con l’aggiunta della totale asportazione dell’occhio sinistro e di tre dita (indice, medio e pollice) della mano destra, per l’anticipata esplosione d’una bomba a mano, marca S.R.C.M.(Società Romana di Costruzioni Meccaniche), chiamata anche “Balilla”, che il suddetto militare aveva lanciato, dall'alto del Carrarmato, di cui era uno degli occupanti, contro una trincea inglese, nel corso dell’eroica battaglia di Marsa Matruh in Tripolitania (Nordafrica)”, fece protocollare, con data precedente alla sua chiamata in “servizio”, una formale richiesta d’”Aggravamento”.

Di più, fece anche arrivare una raccomandata, scritta da un avvocato di Pontremoli (provincia di Massa Carrara), in cui, non solo s’informava l’Ufficio del sopravvenuto decesso del Coclite Muzio Scevola, attribuito ovviamente ad ulteriori aggravamenti, tutti riconducibili al trauma di Marsa Matruh, ma anche che la famiglia, costituitasi, suo tramite, Parte civile, per danni morali e materiali subiti, a causa del mancato riconoscimento dell’aggravamento dello stato d’invalidità del congiunto, formalmente notificato per tempo, senza, per altro, aver ricevuto riscontro dall'Ufficio competente, sempre suo tramite, aveva provveduto a sporgere denunzia, a carico d’ignoti, per omissione d’atti d’ufficio, con tutte le immaginabili conseguenze penali che, attraverso accenni, faceva intravedere.

Lasciato passare qualche giorno, Orazio, in stato di evidente quanto simulato affanno e con il polveroso fascicolo in mano, si precipitò nell'Ufficio del Maresciallo, chiedendogli, visto che questi si trovava a capo dell’ufficio praticamente dal primo giorno in cui era stato costituito, le motivazioni per le quali, mancando una qualche risposta alla circostanziata domanda d’aggravamento del Caporale Coclite Muzio Scevola, formalmente protocollata, era, di fatto, rimasta “inevasa”.

Il maresciallo, però, che si vantava di poter ricordare, praticamente “a menadito”, tutti i fascicoli del Distretto, relativi alla sue specifiche competenze, per quanti sforzi di memoria facesse, non solo non “aveva presente” quella pratica, ma, soprattutto, messosi immediatamente all'opera di persona, tra le tante scartoffie affastellate per i diversi uffici del Distretto, non riuscì a trovare uno “straccio” di documento che potesse chiarire le gravi ragioni per quali, Coclite Muzio Scevola non era stato “accontentato” al punto di non avergli neppure dato risposta.

Evidentemente qualcuno, non certo lui, che si riteneva strutturalmente irreprensibile e che, per questo, era rimasto di sale come la moglie di Lot quando, disubbidendo al marito, s’era voltata a guardare la distruzione di Sodoma e Gomorra, aveva sciaguratamente smarrito parte dei documenti della pratica, mettendo con ciò a rischio, dal punto di vista disciplinare, risarcitorio ed, al limite, anche penale, le persone, o, meglio, il responsabile operativo dell’ufficio.

Ragion per cui, ad onta d’ogni invito a darsi, per così dire, una “calmata”, venne preso da uno “sturbo” tale che lo vide, dopo una settimana di letto, per giorni e giorni, in condizioni di “fregola” compulsiva e con un “diavolo per capello”, alla vana quanto sistematica ricerca del “maltolto”, pressoché in ogni angolo del’ufficio, in ogni cassetto, in ogni ripostiglio, in ogni sottoscala od ambulacro di cantina, dove stavano, da anni, stipate, in maniera raffazzonata, tonnellate di documenti.

E questo, fino al giorno in cui, siccome la “questione” stava diventando talmente confusa e “pesante” da far  prefigurare l’ipotesi d’apertura d’un’inchiesta, Orazio decise di “ravvedersi”, sperando d’uscirne, comunque, senza troppi danni, prima che la situazione gli sfuggisse di mano.

Appena, infatti, si rese conto che l’anziano Maresciallo cominciava letteralmente a “dare i numeri”, con una scusa, per “togliere il vino dai fiaschi”, decise d’invitarlo a cena (cosa che la controparte interpretò come segno di un principio di riappacificazione) in un ristorante di lusso e sostanzialmente “esclusivo” quale era a quei tempi il “Toulà”.

Per cui, alla fine dell’agape, profittando degli aperitivi, delle gustose pietanze, delle abbondanti libagioni, dello squisito dessert e d’un cognac di marca (che gli costarono un occhio della testa), prendendola alla lontana, confessò il misfatto.

Misfatto, che seppure, dopo una “sfuriata” al limite dell’Isteria, toccatagli, seduta stante e coram populo, all'interno del ristorante, non gli guadagnò un periodo di detenzione a Gaeta, tuttavia gli procurò 40 giorni di C.P.R. (cella di rigore) in caserma.

Dopo una settimana di prigione, per fortuna, gli venne in soccorso il Sottotenente, nel frattempo, promosso Tenente, che non solo gli restituì la libertà, ma, per aver magistralmente gabbato il maresciallo, gli consentì d’andarsene, per una settimana, in licenza (premio).