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"Giglio Pro e Contro: noterelle gigliesi 2020"
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GIGLIO PRO E CONTRO NOTERELLE GIGLIESI. 2020

Scrivo le Noterelle che seguono, in questa estate che, a causa del Coronavirus, si temeva, per il Giglio, pochi turisti e molto danno economico. Per fortuna, appare evidente, va in modo diverso: turisti che fanno a gomitate, tutto esaurito. Bene per tutti e, specialmente, per gli operatori del turismo. Le Noterelle le butto giù dunque come semplice pro-memoria, perché non si perdano d' occhio certe situazioni che pesano da tempo sul Giglio, e che andrebbero in qualche modo chiarite, vuoi per interessare nuove fasce di turismo, vuoi per stimolare i gigliesi, e specialmente i giovani, a tener saldi i legami con le radici della Comunità isolana.   Una speranza e un auspicio, senza molte illusioni, come chiarisco nel breve finale “Tiro le somme”.

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1 - LA RICERCA VANA Questa estate Angela ed io rimaniamo più tempo sull'isola; ci hanno convinto le figlie. Effettivamente per noi vecchi è meglio qui che Roma. Qui, a pochi passi, abbiamo botteghe, bar Pierina, trattorie, gente da incontrare, amici con cui scambiare due chiacchiere. E poi, in caso di necessità, un servizio sanitario efficiente e facilmente raggiungibile, come più volte sperimentato. Dunque restiamo: deciso. Impiegherò le giornate soprattutto a proseguire nella ricerca, iniziata a Roma, su Cosimo I°, padrone del Giglio, dal 1558 al 1574. La ricerca potrebbe concludersi, chissà, in un libricino da offrire, come gli altri che ho scritto, alla gente del Giglio. Le mie buone intenzioni vengono però subito ostacolate: mi mancano dati che potrei trovare in libri che ho a Roma. Dovrei consultare, i volumetti di Andrea Brizzi e Cune Paolicchi, e poi “Il Giglio e la sua flora” di Stefano Sommier, e “Il Giglio fra Medici e Lorena” di Mara Villani, e forse altri ancora. Tutte pubblicazioni che trattano specificatamente del Giglio, e che dovrebbero essere qui di casa, cioè reperibili e consultabili con facilità. Così come i molti, libri, più o meno recenti, scritti da gigliesi, o su gigliesi come, ad esempio quelli, di grande interesse, sulla famiglia Stefanini. Invece non ci sono e, se ci sono, sono nascosti in modo che nessuno li trovi. Al Giglio non c'è biblioteca comunale; non una libreria e neppure un deposito; non c'è un catalogo aggiornato, non c'è una bacheca dove i libri possano essere esposti, e nemmeno una bancarella dove siano visibili. Non va meglio se mi serve consultare qualche documento dell'Archivio storico comunale. E' chiuso in armadio e ci si arriva dopo appuntamento, aperture di lucchetti e parole d' ordine. Poi la ricerca del faldone che interessa, fra i molti stipati, sperando che non sia tra quelli che da molti anni giacciono nel laboratorio fiorentino di restauro.

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2 - LA ROCCA PROMESSA Qui al Giglio, quando si tratta di cultura, si evocano i tempi biblici, specie per quelli che passano tra il dire e il fare. Prendiamo ad esempio la Rocca pisana di Giglio Castello. Correva l'anno 1986 quando la dottoressa Nicoletta Maioli Urbini, della Soprintendenza archeologica di Firenze, nel Bollettino n. 35-36 del Ministero dei Beni CCAA (Culturali e Ambientali), faceva la storia della Rocca, ed elencava restauri e modifiche per adattarla alle finalità culturali cui era stata destinata. Da convento di monaci sfuggiti all' invasione barbarica, a baluardo della Repubblica pisana, a punto di vedetta del sistema di difesa del Granducato di Toscana. Ora, deposte le armi, viene destinata a diventare centro di cultura. Vi saranno sale di riunioni (conferenze, mostre, concerti); vi troveranno posto l'Archivio storico e la biblioteca comunale. E poi le sale delle tradizioni contadine e di quelle marinare, con esposizione di attrezzi in uso nelle due attività. Vi saranno le sedi di delle varie associazioni locali, della Misericordia, del teatro, del coro, della banda musicale. E forse anche altro che io ho qui dimenticato. Ad esempio i punti di ristoro, di informazione, di varia assistenza, di vendita di ricordi, e così via. Il turismo isolano ne trarrà grande beneficio. Quel ricco programma è però ancora allo stato di desiderio senza che, peraltro, si siano registrati, a tutt'oggi, cenni o moti di indignata protesta. E così passano le generazioni, tanto di gigliesi che di soprintendenti.

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3 - POCA MEMORIA Provate a chiedere: Se la tua casa andasse a fuoco, cosa vorresti salvare su tutto? Il più delle volte la risposta sarà: soldi, documenti, fotografie. Tutte cose per continuare a vivere, cioè ad esistere. evidentemente; anche le fotografie che sono la nostra presenza tangibile, nel passato di cui siamo l'ultima propaggine. Andando più indietro, il nostro passato continua nella memorie de padri e poi dei nonni e poi, ancora, nella memoria delle carte conservate. Ciò vale, come per i singoli, anche per le Comunità; esse vivono nella memoria degli archivi. Il Barbarossa, per cancellare la comunità gigliese, non solo tagliò la testa ai capi dell'isola, ma incendiò i documenti conservati nel Comune. La famiglia Pazzi, dopo la congiura del 1478, fu dai Medici non solo eliminata fisicamente, ma cancellata dai documenti e dai registri. Savonarola, con i libri, la memoria dei suoi avversari. Oggi sono molte le Comunità che, per rivivere nella propria storia, riesumano antichi eventi facendone, nel contempo, valido motivo di promozione turistica. Avviene tanto nelle Comunità numerose e ricche – vedi Venezia e Siena - quanto in quelle che tali non sono.   Uno degli spunti che stimolano il ricorso al passato è la presenza invadente e violenta dei saraceni sulle coste italiane. “Allarmi allarmi suona la campana, li turchi so' sbarcati alla marina” cantava Otello Profazio. E' così che Positano, per cinque anni, ha inscenato lo sbarco dei saraceni, con tanto di battaglia in mare e sulla riva. Anche a Bellaria Marina i saraceni ogni anno sbarcano, sono battuti e i vincitori sfilano e il popolo è in festa. Lo stesso copione a Laigueglia, mentre ad Arezzo e a Foligno il saracino è bersaglio delle lancia di ardimentosi cavalieri. Tutte questi eventi sono insieme ripasso storico, divertimento e spettacolo nel quale il popolo riassapora il proprio passato, del quale è orgoglioso. Al Giglio, come si sa, i saraceni erano di casa; spesso per far danni, ma il più del tempo vivendo con gli abitanti, facendo commercio con loro, frequentando le loro case. Per secoli. Però qui nessuna rievocazione storica tranne quella, messa su alla meglio, dello sbarco tunisino del 1799. Poca voglia di passato, poca memoria? Eppure gli spunti ci sarebbero. Nei Casotti di scoperta, due parole di spiegazione, e bicchierata storica; così come al palmento del Cecchetti o alla fonte del Barbarossa o al Canto del Turco. Al Campese gli sbarchi e i reimbarchi precipitosi; al Castello l'assedio nel frastuono degli spari e i saraceni presi e gli assediati vincitori in corteo sulla Piazza Gloriosa; nella caletta del Saraceno musica e danze esotiche. Senza dimenticare il Kebab e le altre specialità arabe in gara con quelle nostrane, ansonaca compreso. Con tutte le varianti che volete.

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4 - I BENI NASCOSTI L'isola del Giglio e la storia. Piazzata in mezzo al Tirreno, sulla rotta dei corsari saraceni, è stata vedetta e baluardo (quasi) inespugnabile. Se la sono contesa papi, duchi e granduchi, e l'hanno posseduta, di tempo in tempo, pisani, senesi, aragonesi, amalfitani e fiorentini. Lo sappiamo dai documenti di archivio, ma anche da ciò che ci resta, di costruito. Ecco cosa. Il monastero reso poi rocca pisana; il Castello con le mura e le torri; le tre torri costiere, quella a difesa del porto, quella a guardia del doppio lazzeretto (1624) e la più recente (1699) che, al Campese, a tutela di pescatori e corallari isolani. Anche i muri sommersi della cala del Saraceno hanno bisogno di spiegazione corretta, non si tratta della cala delle murene come è scritto. Ognuna di queste costruzioni porta in sé un pezzetto di storia gigliese che però, ahimè, non è fatta conoscere. Basterebbe un cartello con qualche data e poche righe di spiegazione. I tanti frequentatori forse gradirebbero, e per il Giglio si tratterebbe di utile promozione turistica. In questo gioco a nascondino la Soprintendenza fa la sua parte. Dove trova qualcosa di importante subito lo rinterra perché nessuno sappia. Mancanza di soldi, dice: certamente, ma forse anche mancanza di volontà e anche di grinta di chi dovrebbe farsi sentire. Comunque le cose stanno così: l'isola, tanto dalla parte di levante quanto dalla parte di ponente, è ricca di rinterri su beni preziosi, una specie di cimitero culturale. Senza lapidi commemorative (qui giace...) un cimitero clandestino. La grande àncora esposta sulla piazza della Dogana è corredata da una scritta: addirittura in latino. Quando niente e quando troppo.

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5 - RESTI SUL TERRITORIO Il territorio dell'isola è disseminato di manufatti che la legge, mi pare, considera alla stregua delle costruzioni del centro storico, cioè da conservare. Si tratta soprattutto di annessi agricoli usati come deposito (capannelli), o per la spremitura dell'uva (palmenti) oppure per la seccatura di fichi ed uva, i forni. Ci sono poi resti di costruzioni religiose, come chiese, cappelle, oratori campestri, ed altre ancora, ad uso militare, come i casotti di scoperta. Tutta roba di pregio che racconta la lunga e travagliata vicenda del Giglio e che deve essere conservata per le generazioni a venire. Così si dice. Conservati, ma da chi? Per i manufatti di proprietà privata, dallo stesso proprietario; per gli altri da Comune, Regione, Soprintendenza, Parco, ognuno per ciò che gli compete.   Il compito è abbastanza semplice per i resti di costruzioni religiose o militari o civili perché sono pochi: basta farne rilievo grafico e fotografico e posizionarli sulla Carta (quella della Regione Toscana in scala 1:5.000) Diversamente è per gli annessi agricoli che sono tanti (io ne ho contati circa 400) in situazioni diverse: di proprietà ed attivi; di proprietà e inattivi; gli abbandonati. Anche per essi vale il rilievo e il posizionamento sulla Carta. Dopo di che serve una selezione che riduca il numero dei manufatti da conservare, fatta con rigorose valutazioni tecniche e storiografiche. In mancanza di questi interventi preliminari, tutto andrà in malora, come pare stia ora appunto accadendo. Accade anche che, appena il proprietario esprime la intenzione di intervenire, le Istituzioni di colpo si svegliano per sottoporre rudere e proprietario al fuoco di sbarramento burocratico, capace di piegare anche la più ferrea volontà. Gli esempi, in proposito, non mancano. Io stesso, in qualità di progettista del restauro di un capannello scoperchiato dall'usura del tempo, sono stato denunciato e portato in tribunale per difendere il mio operato professionale. Il mio accusatore vi ha fatto una figura barbina.

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6 - LA TORRE DI BABELE Le tre torri del Giglio sono, dalla più recente a quella più vecchia, la torre del Campese (1699) a difesa dei pescatori di coralli gigliesi; la torre del Lazzeretto (1624) a difesa dei due successivi luoghi di quarantena sulla penisola del Balestriere; la torre a difesa del porto, di età pre-medicea. Tre preziose diverse testimonianze del passato, ma un po' anche del presente. La torre del Lazzeretto e la torre del Campese sono oggi di proprietà privata e appaiono ben tenute, lustre e vivaci, la torre del Porto no. La torre del Porto, langue in rovinosa solitudine. Perché? Proviamo, per capire, a rivedere, per sommi capi, la sua storia, traendo dal ben documentato libro di Cesare Scarfò. Agli inizi del Secolo XX è del Demanio che la vende a un privato che, a sua volta, la vende alla cattedrale di Orbetello che la affitta ai “Giornalisti europei”. Questi presentano un progetto di “restauro” che, sotto sotto, vuole ricavarvi qualche appartamentino. La cosa si scopre, lo scandalo dilaga, le istituzioni (ognuna per la propria parte) temono di rimanere col cerino in mano. Fioccano denunce e intervengono Tar. Ci si mette anche il maltempo che demolisce quel poco che è rimasto all' interno. Siamo nel 1977, la bufera si placa, la torre giace, sedotta e abbandonata. Passano diciotto anni e, per vedere di recuperarla alla vita, presento (per conto dell'Associazione Amici del Giglio) un progetto di restauro che Siena accoglie, con modifiche, e il Comune invece accantona, per poi chiederne, ad altro progettista un secondo, anche questo finito in un cassetto. Il Comune chiede poi un terzo progetto; lo chiede tramite concorso. Poi appalta, ma solo lavori esterni mentre l'interno rimane vuoto e inservibile e l' esterno mostra già le prime abrasioni nello scarso intonaco applicato. La torre del Porto langue rudere abbandonato, nella indifferenza generale. Un edificio come una torre antica può essere di uso pubblico solamente se ha scale esterne di emergenza, cosa che incide sia sulla estetica e sulla struttura. La soluzione “privata” di farne qualche alloggio, in vendita o affitto era invece fattibile e forse anche auspicabile. La presenza nella torre di giornalisti europei poteva essere, oltre tutto, una buona pubblicità per il Giglio. Allora però l'Ideologia prevalse sul realismo: tanti soldi spesi e risultato zero.

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7 - IL PORTO TRIBOLATO Fino al 1796 era uno specchio d' acqua per l'ormeggio a servizio (precario) dell'isola, difeso dalle burrasche soltanto dai resti affioranti dell'antico molo romano. Poi Ferdinando III di Lorena, granduca di Toscana, ne sponsorizzò il riassetto, e da allora il Giglio ebbe un porto vero e proprio. Un porto che andò via via completandosi con un secondo molo e dotandosi delle innovazioni tecniche che i tempi andavano man mano offrendo, come ad esempio, il gas per il servizio del fanalista. Quando io sono arrivato sull'isola (1964) davanti alle case correva una stretta striscia di pavimento di granito e il resto era spiaggia, utile per ammortizzare il moto ondoso. Su di essa si tiravano in secco barche e velieri per la manutenzione periodica. Alcuni pescherecci, gigliesi e forestieri, erano all'ormeggio al molo verde. Un quadretto d'altri tempi. Coerente con la entità geografica dell'isola, e con l'esiguo numero degli abitanti. Poi sfondò il turismo, uno tsunami ingovernato. Fiorirono allora idee di grandezza; qualcuno immaginò per il Giglio un secondo porto, megagalattico, alla Torricella, con molo di 800 metri e 4 chilometri di strada per arrivarvi. Una fiammata di follia che però si spense di lì a poco, quando si tornò con piedi per terra: “adeguare” il porto esistente. Così è stato. Il primo adeguamento fu la copertura della spiaggia con un pavimento di granito: vie le barche, avanti le auto. Una cospicua parte di lungomare divenne area di mercato e ci misero pure un distributore di carburante. Un nuovo panorama del porto quello che apparve fra un camion e l'altro. Poi di tempo in tempo, i vari successivi “adeguamenti alle strutture portuali” eseguiti dalle Opere Marittime. Spesso male. Un esempio, il nuovo pontile. Sostituisce il vecchio, su pali, ma lo vogliono invece ora fare chiuso sotto. Creerà problemi di risacca, avverte Beppe Rum. Le Opere Marittime concordano, ma poi il pontile lo fanno chiuso e gli inconvenienti previsti arrivano puntualmente. Passiamo al molo di levante, allungato e in parte riposizionato. Anche qui le Opere Marittime si fanno notare. Viene abolita la bella terrazza attorno al faro, detta “dei saluti”; viene anche abolita la passeggiata alta, anch'essa molto gradita e frequentata; viene abolita l'apertura che dava sugli scogli, usata prima per andare a buttare i rifiuti in mare; poi dai pescatori di canna per andare in postazione e, infine, da chi aveva improvvisi bisogni non rinviabili. Ed ancora, la burrasca ha buttato in terra la parte superiore del muraglione, cioè la copertina in blocchi di granito - orgogliosamente gigliese - erti una spanna e finiti superiormente “a bauletto” La si è sostituita con lastrine, di poco spessore, di granito cinese! Dice: questione di costo, forse anche perché c'è meno materiale e meno lavoro. Quanto poi alla resistenza al tempo, si vedrà. Di recente sono state tagliate le palme malate e così, dalla Dogana al distributore è una landa assolata con poche panchine vaganti. Infine la invasione di acciaio – transenne, balaustre, ringhiere, cancellate e similari - su cui evito di soffermarmi perché, hanno fatto capire, è argomento tabù.

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8 – UN'ISOLA SENZA MARE Senza mare si fa per dire, naturalmente; il mare c' è eccome, ed è limpido, trasparente e universalmente apprezzato e anche meritevole delle 5 vele. Ed è frequentatissimo; vedere quanti sono i bagnanti, tanto della riva di levante che di quella di ponente e quanti gli esploratori dei fondali delle scuole sub. Un grande beneficio per l' isola, che vive, bene, per la presenza di quei suoi frequentatori marini, e ancora meglio se il loro numero è rilevante. Però, per altri versi, è come se al Giglio il mare non ci fosse. Ad esempio. Non c'è alcun impianto di rimessaggio, manutenzione ed assistenza tecnica per le numerose barche presenti nell'alta stagione. Un progetto di tal genere, in zona porto, fu presentato anni fa, apprezzato dalla Soprintendenza, ma subito accantonato per beghe locali. Si trattava di cento posti-barca al coperto, che potevano diventare cento posti-auto in estate, con i relativi servizi. Altra iniziativa simile venne ipotizzata da Beppe Rum per il Campese. Ormeggi fra la costa e i piloni della vecchia miniera; impianti e attrezzature per il rimessaggio e l'assistenza tecnica, sulla costa. Vi erano previsti ristoranti e bar. Anche questa iniziativa non ebbe seguito, per motivi analoghi. E così al Campese gli ormeggi sono sempre oggetto di faide tribali interminabili. Se poi si entra nel quotidiano, non si vede far grande uso del mare per scuole o competizioni sportive, come nuoto, tuffi, gare remiere, regate veliche, gare di pesca o similari. E neppure è fatto oggetto di studi o di insegnamento per i più giovani: è del lontano 1997 la bella ricerca “Progetto ambiente” fatta dalle scolaresche isolane. Non è neppure usato come fonte di reddito, tanto che i pescatori professionali si sono ridotti al minimo. Al Giglio si mangia pesce pescato o allevato altrove. Più in generale, il mare gigliese è, nella sua interezza, senza efficace tutela; non ci sono regole per la pesca, non ci sono aree di rispetto e ripopolamento, non ci sono iniziative per la difesa dei fondali, come sono i campi-boe, diffusi in altre parti del Tirreno. Dunque, al Giglio il mare c'è ma, per certi versi è come se non ci fosse.

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9 - NOI NEGROMANTI “Pochi di quegli scienziati si trasferirono sull'isola del Giglio. Rammentano alcuni abitanti l'abate Recùpero di Catania, e l'abate Fortis, ma questi vi fece breve soggiorno, essendo stato fugato a colpi di sassi dai paesani che lo presero per negromante o, come essi dicono, per maganzese ... Quegli abitanti sapevano per esperienza che chi sbarcava sull'isola lo faceva per prendere e non per dare, ed agivano di conseguenza. Oggi le cose sono cambiate, non più sassate e accuse di negromanzia perché da quando è esploso il turismo, chi arriva per prendersi le ricchezze ambientali isolane porta, in cambio, conoscenze, esperienze e, soprattutto, danaro. Più gente sbarca, più soldi si incassano. Però qualcosa è rimasto dell'antico fastidio per i forestieri, soprattutto da parte dell'Amministrazione comunale che qualche sassolino lo lancia ancora. Andiamo al 1970, quando venne creata l'Associazione Amici del Giglio per dare una mano allo sviluppo dell'isola secondo principi di rispetto dell'ambiente e della tradizione. La nostra iniziativa non fu apprezzata dal sindaco, il simpatico Giorgio Rum, che ci definì “un gruppetto di esteti”. A seguire, nei trent'anni di vita dell'Associazione, tutto ciò che essa ha fatto -interventi, proposte, iniziative di sicura utilità per il Giglio - è stato, dalle varie Amministrazioni succedutesi, ignorato se non addirittura ostacolato. Quante sassate! E forse quante occasioni perse per realizzare uno sviluppo più ragionato, con importanti contributi venuti da fuori. Arriviamo ai nostri giorni, quando sono passati circa sessant'anni dai primi arrivi consistenti di gente che, capitata sull'isola per i motivi più disparati, ha posto le solide basi del turismo isolano. Professionisti, artisti, giornalisti, scienziati gente di spettacolo, imprenditori e via dicendo. Tra molti di loro e la gente del posto si sono create spesso solide amicizie, anche perché, come ancora scrive Andrea Brizzi, da parte gigliese si tratta di "popolazione ospitale che, quantunque segregata dal continente, conserva tutta l'urbanità toscana” Però, da parte delle varie Amministrazioni succedutesi, nessuna apertura, nessun riconoscimento “ufficiale” per quella non foltissima schiera di scopritori che hanno aperto le porte al benessere del Giglio. Per loro, nonostante tutto, noi forestieri continuiamo ad essere un po' ancora negromanti.

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TIRO LE SOMME Serve ora qualche considerazione. Le nove Noterelle descrivono situazioni che si sono create da tempo e condizionano in qualche modo la vita isolana. Ciononostante gli Amministratori vi hanno messo poca o nessuna attenzione. Così facendo essi hanno agito, evidentemente, secondo i desideri dei loro elettori, altrimenti non sarebbero stati più volte rieletti, come invece è avvenuto. Dunque la maggioranza degli elettori gigliesi – o meglio, la maggioranza dei votanti – vuole che le situazioni delle nove Noterelle rimangano così come sono, perché così a loro piace oppure, se anche non piace, a loro conviene. Se le cose stanno in questi termini il caso è chiuso, almeno fino a diverso orientamento della maggioranza dei votanti.

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Per sapere perché ai più piace o conviene che le situazioni descritte nelle Noterelle rimangano così come sono, occorre sentire le voci degli interessati. Ecco quelle più significative che ho ascoltato. “La gente al Giglio ci viene anche senza chiamarla; guarda quest'anno che sembrava perso, fanno a gomitate: tutto pieno, tutto esaurito, come non mai. I tre quattro mesi di lavoro estivo che facciamo ogni anno ci bastano; dopo chiudiamo tutto, andiamo in città, e ci scappa anche una bella vacanza a Cuba o alle Seychelles.Tutto il resto sarebbe fatica sprecata, va bene così” “La Rocca, sarebbe bello vederla finita, ma musei biblioteche archivi e tutto il resto, chi lo mette in piedi e con che soldi? Ci penseranno i nostri nipoti.” “I resti, capannelli e ruderi sparsi sul territorio, se li curino i proprietari, e gli altri pazienza. Perché in giro per l'isola ci vanno in pochi e questi hanno altro a cui pensare. Fare di più sarebbe fatica sprecata.” “Le feste storiche, gli sbarchi saraceni, ma per chi e perché, tanto lavoro inutile, visto che la gente qui ce l'abbiamo comunque” “Il mare, lasciamolo così com'è; se qualche pezzo di fondale si rovina d'estate, poi in inverno si rimette a posto. Senza bisogno d'altro. I pescatori di professione sono pochi perché non gli conviene. Il pesce che viene di fuori è buono e costa meno che andarlo a pescare.” “L' Archivio storico è importante certamente; ma è ben custodito e, se qualche pezzo è ancora al restauro, anche lì sta sicuro. Poi tornerà, quando non ci saranno da fare spese più urgenti.” Questo è buona parte di ciò che mi pare di aver sentito dire in giro, virgola più, virgola meno. Questo insomma è il Giglio, oggi. Qualcuno lo avrebbe voluto – e tuttora lo vorrebbe – diverso. A questo proposito allego la bella descrizione di una giornata importante, di quando al Giglio ci fu un'idea.

Giglio, 31 agosto 2020 Bruno Begnotti

ALLEGATO

UN'IDEA PER IL GIGLIO Occorreva un'idea per agganciare il Giglio al fenomeno turistico nascente. Qualcuno la ebbe. Ecco quanto ricorda il sindaco di allora Peppino Ulivi: “Capri era il faro. Piccole lucciole le altre isole. Quasi ignote. La vita era dura, agra come avrebbe detto Luciano Bianciardi. Nella mia isola, il Giglio, appena accettabile perché una miniera portava nella metà delle case uno stipendio. E quando gli anziani disposero che io scendessi nell’agone come sindaco, perché ero giovane e avevo studiato, spendemmo energie a non finire per recuperare qualche dignità alla vita. Per assicurare l’acqua nelle case, ad esempio, e dalle case l’uscita di depositi indiscreti. Alla radio e alla TV non si parlava che di Capri, delle congiure sentimentali che lì si tramavano, di ricchezze smarrite, di fatuità ingenerose, di mode irridenti i severi costumi isolani. La mazzata finale al Giglio giunse nella seconda metà degli anni ’50 con la dismissione della miniera. Fu la diaspora. Se ne andarono chi in Lombardia, chi nelle Marche o in Piemonte. Magari – come se non ne avessero a sufficienza – in altre miniere della Maremma. E i vigneti, che prima coprivano l’isola di verde, non c’erano più. La macchia si era allargata e appariva più scura a fronte delle larghe chiazze gialle di inutili stoppie. A Roma, sulle pendici di Montemario, nel salotto buono di una giornalista tedesca, Blida Heinold von Graefe, saltò fuori l’idea di contrapporsi a Capri. Assurdo. Inimmaginabile. Chiacchierando con un critico ed esperto di TV delle mie angosce e delle mie difficoltà a trovare una via d’uscita per rilanciare l’isola, egli mi prese di petto: “Ma perché non istituite un premio?” “Un premio? Per chi, per che cosa?” “Un premio per la TV”, disse. “Ma se l’Italia è piena di premi per la TV, cosa mai possiamo inventare al Giglio? E poi il premio magico è quello di Capri: il Premio Italia. E noi poi non abbiamo né strumenti né soldi per farlo.” “Sì” disse il mio interlocutore “è vero, ma il glorioso Premio Italia è autoreferenziale.” Non mi disse proprio questa parola, ché non era in voga a quei tempi: voleva dirmi che era nato e gestito dalla Rai, sin dal 1948, come premio internazionale radiofonico per premiare anche le proprie opere. “Al Giglio – continuò – potrebbe nascere un premio alternativo, come dire, non conformista, proposto e deliberato da una giuria indipendente, senza condizionamenti.” “Proviamoci”, dissi. Guido Guarda, il mio interlocutore, ed io, ognuno per la propria parte, ci mettemmo a lavorare. Da alcuni critici televisivi, primo firmatario, insieme a Guarda, che lo aveva ideato, Enzo Biagi, allora ad “Epoca”, fu sottoscritto “un manifesto” per promuovere la nascita di un Premio riservato rigorosamente ad un genere di produzione rispondente al più autentico linguaggio dello spettacolo televisivo. Fu chiesto alla marchesa Cristina ed alla figlia Elettra il permesso, accordato, di intitolare il premio a Guglielmo Marconi, tanto più che correva in quell’anno il 50° anniversario della concessione del Nobel allo scienziato italiano. Il Consiglio comunale approvò l’iniziativa. I finanziamenti furono generosamente disposti dall’Ept e dalla Provincia di Grosseto. E venne settembre: 12, 13 settembre 1959. Il 12 sera, in anteprima conviviale, c’eravamo un po’ tutti. C’era la giuria: il presidente Achille Campanile, Carlo Bo, Enzo Biagi, Luigi Chiarini e Guido Guarda in veste di commissario e segretario generale del Premio. Erano giunti al Giglio con la piccola motonave “Aegilium”. Aspettavamo Enrico Emanuelli, il grande giornalista, ma non c’erano altre corse della nave. Ci servirono la cena. Poi arrivò anche Emanuelli, spiaggiato da una barca proprio di fronte all’albergo. Durante la cena, io timidissimo di fronte a loro, parlammo soprattutto del Giglio, della sua gente, gente di mare e di terra, rudi tutti, rudi e generosi. In altri tavoli, giornalisti e critici televisivi. Tinin Mantegazza aveva allestito una “microtelemostra” con tante sue vignette. Me ne regalò una: un bambino seduto sul vasetto intento a guardare la cascata di “Intervallo”, lo stacco tra due programmi TV. La giuria si ritirò per esaminare ancora le precedenti considerazioni. E continuò il giorno dopo a Giglio Porto, mentre le strade brulicavano di ospiti, giornalisti, gente di TV, attori e registi. Gente mai vista così da vicino. Ornella Vanoni non si vide fino a sera: s’era fatta portare direttamente all’Hermitage, un albergo nato da poco sugli scogli a poca distanza da Giglio Porto. Vi si accedeva con la barca. Nel pomeriggio, tra la curiosità e lo stupore della gente, un elicottero atterrò sul molo. La prima parte del programma prevedeva il sorteggio di un “Cinghiale d’oro”, fra i Centri TV. Nell’urna erano racchiusi trenta foglietti. Caterina, la moglie del sindaco, un po’ emozionata, venne invitata ad estrarne uno. Scattarono i flash, ronzarono le camere di ripresa dei cinegiornali e del telegiornale. Sul foglietto estratto spiccava l’antico stemma del Comune del Giglio e la scritta “Monte Serra”, il Centro trasmettitore TV in provincia di Pisa a quota 917. All’attrice José Greci venne consegnato il “Cinghiale d’oro”: un po’ commossa, un po’ spaurita salì sull’elicottero che si librò nell’aria, sostò un po’ in segno di saluto e si diresse a Monte Serra per portare l’omaggio a quegli eremiti in camice bianco. L’attesa del verdetto, intanto, incuriosiva i giornalisti consapevoli di una sorpresa che forse avrebbe suscitato polemiche. Un premio impopolare. Un premio senza divi. Si fece sera. Tra una sfilata di alta moda e le canzoni di Ornella Vanoni, bella e aggressiva, vestita di nero, Achille Campanile lesse il verbale della giuria. Si capì subito: “…….in base alla esplicita formulazione del regolamento etc. etc…. la giuria si è trovata di fronte ad un limitato gruppo di trasmissioni….”. Altre considerazioni, poi il verdetto: “…fra queste trasmissioni – lesse il presidente Achille Campanile – è sembrato alla giuria che una si distinguesse per l’intelligenza e la sensibilità con cui viene trattata una materia che sembrerebbe a tutta prima offrire scarse possibilità al mezzo televisivo. Questa trasmissione si è affermata attraverso una esperienza di cinque anni presso un pubblico vastissimo, proprio per l’eccellente uso delle qualità espressive della TV. Pertanto la giuria ha deciso di assegnare il Premio nazionale Guglielmo Marconi della Televisione, edizione del 1959, dotato di un milione di lire e di un “Cinghiale d’oro”, alla signorina Jole Giannini, autrice e interprete della rubrica di lezioni di lingua inglese “Passaporto”. Ci furono polemiche e consensi, naturalmente. Un premio impopolare e senza divi. L’Eco della Stampa di Umberto e Ignazio Frugiuele ci trasmise una valanga di articoli su giornali italiani, tutte le testate comprese quelle politiche, ma anche stranieri, tedeschi in particolare. Niente male. Un grande successo. Ora parleranno tutti del Giglio e la gente verrà a vederla o a villeggiare, “dicemmo. Ora Giglio ha il suo premio. Come Capri, il faro delle isole.”