Tra riverenze e inchini, una zirudela che porti allegria
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Tra riverenze e inchini, una zirudela che porti allegria In un’epoca d’inchini (tragico assai quello di Schettino, che, probabilmente, da Docente “emerito” de “La Sapienza” di Roma, che annovera, se non vado errato, tra i 150 ed i 200 mila studenti, non dovrà più farne perché, se non li ha già ricevuti, è probabile che d’ora in avanti li riceverà). D’inchini all’Europa che, Renzi, non ostante la sua immutata albagia, secondo Draghi, sarà costretto a fare. D’inchini di folle oranti, in chiese, sinagoghe moschee e templi d’altre religioni e confraternite, ad onta delle innumerevoli stragi che, per ogni dove di questo mondo, si continuano a perpetrare, soprattutto a carico d’inermi,  in nome della fede e delle ideolgie più diverse ed imperanti. D’inchini che, via via, sempre più i tanti Italiani, che sono nel bisogno, sono costretti a fare, per far quadrare il pranzo colla cena, a fronte d’un 7% di persone che, invece, detiene il 50% del prodotto nazionale, mentre si dice non ci siano risorse cui attingere per la ripresa ed il rilancio dell’economia (a volte, non ostante sia un mazziniano senza macchia e senza paura, mi viene da pensar bene del Comunismo). D’inchini, compromessi e reiterazioni di viaggi e viaggi agli Uffici del lavoro, che lavoro non hanno da darti, che milioni di giovani disoccupati, ben oltre il 50% di quel che riportano le statistiche ufficiali, sono, via via, a formalizzare senza risultato. D’inchini e genuflessioni che la spesa pubblica, a cui, alla faccia del default verso il quale avanza imperturbabile, è costretta a soggiacere a vantaggio di privilegi d’ogni genere che, tutt’ora, caratterizzano, corporazioni, confreternite, categorie e  caste di varia specie, espressioni immutabili sia dell’imprenditoria che del mondo del lavoro pubblico e privato. Di fronte a tante sostanziali e gravi “prosternazioni”, quali quelle (e non sono le sole) appena enumerate, che vedono la stragrande maggioranza dei cittadini del Paese, nell’incertezza di poter dare ai propri figli un futuro quantomeno dignitoso, sacrificarsi, umiliarsi, far buon viso a cattivo gioco, accettare compromessi, dimidiare i propri consumi etc., talvolta, anche se, purtroppo, di rado, ci sono inchini che, invece, hanno il pregio di darti allegria e spensieratezza. Ed è, bando alla cattiva sorte!, d’uno di questi inchini che tratta la “zirudela” (siccome è definito, in Emilia-Romagna, questo tipo di composizione satirica),  di seguito riportata. Una zirudela che tratta d’una genuflessione realmente avvenuta, tanti e tanti anni fa, ad Orbetello Scalo, ancorché ricollocata nel tempo e nello spazio d’altra epoca, e d’altri costumi: Zirudela pubblicata, nell’anno 1962, dalla rivista “Il Bercio” edita, annualmente, dagli Universitari d’Orbetello attraverso la collaborazionegrafica e le illustrazioni di due famosi ed affermati pittori maremmani, ossia, rispettivamente ArditoSchiano ed Enzo Lenzi.

GEREMIADE D’UN PETO

Era ormai notte fonda sul villaggio, poche lucerne accese nei manieri, il tempo era trascorso già di Maggio e il sonno avea sopito i desideri, che Priapo, pietoso e incontinente, in ogni alcova e profumoso letto, per lenire le cure della gente, porta a noi, donandoci diletto, non appena il lume amico è spento, e si risveglia in noi l’ardor del senso.

Già ‘l pipistrello, con civetta e gufo, sui tetti e sui balconi volitava, per ogni gregge s’aggirava il lupo e un gatto nero, triste miagolava.

Alla taverna sol del Mago ancora a bestia ed ai tarocchi si giocava, benché trascorsa ormai già fosse l’ora, e vino in gran boccal si tracannava.

Ma ecco, in lontananza, che s’appressa corteo di dame e cavalieri austeri, e  intorno ad una tutta era la ressa, attratta da due occhi neri neri.

Sposa era questa prosperosa donna d’un abile mugnaio del villaggio, che denaro avea fatto, a somma a somma, onestamente e non col brigantaggio.

A destra e a manca ea volgeva il guardo, rinvigorendo gli uni e gli altri insieme, e, chiedo venia se in ciò m’attardo, il sangue  ribollendo nelle vene.

Del Mago alla taverna di rimpetto giunta era questa nobil compagnia ed il garzone allora, Don Paffetto, omaggio volle far con leggiadria. Indietro si portò, chinò le spalle, la fronte oppose agile al sedere, la mano roteò spedita e molle da destra a manca come un cavaliere.

Ma un fatto avvenne tosto inaspettato, mentr’ei rendeva omaggio a quella dama, appena, appena un po’ si fu chinato, chissà da quale innominabil tana, un rombo uscì spedito e prolungato, un sito inverecondo e fraudolenteo, che rintronò per tutto l’abitato e suscitò lo schifo e lo spavento di quella tanto austera compagnia che in quella notte calda, per diletto, incamminata si trovò per via, disdegnando le coltri d’un buon letto.

La dama si fe’ pallida nel volto, s’irrigidì nel corpo prosperoso, la leggiadria le cadde ben di molto e lo fissò con sguardo disdegnoso.

Poi, lenta se n’andò alla sua magione, mentre il solingo garzoncello mesto cercava di chiarire la questione, sicuro che d’un fallo sì molesto altri s’era macchiato alle sue spalle; ma per quanto lo sguardo acuminasse per ogni dove in tutta quella calle non v’era certo chi lo discolpasse.

E il povero garzone avea ragione: un giovane burlone e scapestrato, mentr’ei facea tal genuflessione, alle sue spalle un peto avea mollato e, immantinenti, tra cotal sgomento, veloce era fuggito come il vento.

Già ‘l barbagianni, con civetta e gufo, sui tetti e sui balconi volitava, per ogni gregge s’aggirava il lupo, un gatto nero, triste miagolava, e un rutto ch’aveva preso il discensore, cangiossi in peto e fe’ grosso romore.