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Di ‘a terra e di Alivari - Della terra e degli uliveti
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Un racconto dalla terra che mi ospita da tre mesi, la Calabria.

Di ‘a terra e di Alivari - Della terra e degli uliveti

Tutto ha inizio il 1° gennaio del 1948, quando la zia Concettina, compì sedici anni. Quella mattina, sopra la solita gonnella grigia che indossava la domenica, si era messa ‘a camisa, una camicetta di raso verde brillante cucita dalla mamma. Un giorno speciale per la zia, oltre all’anno nuovo appena festeggiato c’era il suo compleanno: Sedici anni, un’età che chiama alla curiosità degli incontri tra amiche; di segreti ammiccanti; condivisi. Di sentire dei miscugli nel petto che non capisci ma provi entusiasmo per la vita e sorridi con le guance arrossate mentre fai i mestieri di casa o aiuti int ‘a terra, nel terreno, dove c’è sempre tanto da fatica’. Sedici anni: l’età che saluta per sempre l’infanzia, l’adolescenza e ti trasforma in donna, giovanissima, ma donna. ‘A zi’ Cuncettina, era ciota di statura, chiara di capelli e occhi celesti.

A fare gli auguri a Concettina arrivò il cugino Francesco detto Ciccio con un pacchetto di mostrazole in mano, (dolci tipici del luogo), quel sacchetto bianco, restò nelle sue mani tutto il tempo necessario per contemplare lo splendore della ragazza vestita di verde brillante. Pe’ ‘u signurino fu una rivelazione, perché lui alla zia la conosceva bene; la vedeva quasi tutti i giorni, ci aveva giocato e camminato correndo lungo i sentieri scoscesi che portavano alla terra di famiglia ricca di alivi secolari. Comunque per Francesco detto Ciccio fu una rivelazione colpo di fulmine e la chiese subito pe’ zitu, per fidanzata e Concettina, ’a piccirija alle soglie della giovinezza, lo guardò anche lei con occhi nuovi perché gli innamorati in effetti, cambiano espressione diventando più belli e ‘o zi’ Francesco già bello di suo per altezza e portamento, quel giorno risultò affascinante tanto da farle dire subito di si. Gli anni immediati alla guerra furono terribili per tutti gli italiani; ovunque macerie da ricostruire e mancanza di lavoro; c’era la fame nel vero senso della parola e forse in Calabria, terra di ficalindi e alive, ce n’era anche di più per via al chiamo delle armi per gli uomini, conseguente abbandono delle terre e dell’agricoltura. Molta gente, nel paese dei due giovani, era già partita verso altre nazioni che offrivano con un po’ di sacrificio, lavoro e guadagno. L’innamorato Francesco, pensò di andare anche lui in Argentina, in quel periodo nazione di richiamo per tantissimi italiani e propose alla zia di andare insieme subito dopo il matrimonio, ma Concettina, che aveva paura di volare co’ l’apparecchio o della nave pe’ ‘o mare, rispose di no, lo avrebbe aspettato là nel suo paese; i genitori avevano un frugale negozio di generi alimentari e lei serviva dietro alla finestra della stanza di famiglia adibita allo scopo, perché dava sulla strada. Così lo zio Francesco, bello, elegante per natura e innamorato, partì con altri parenti alla volta di Buenos Aires con l’intento di tornare “quasi subito”.

Per la zia Concettina iniziò un’attesa lunga otto anni, intervallata da telefonate al posto pubblico e frasi scritte su fogli di velina spedite per via aerea in busta leggera, dove lo zio raccontava le sue giornate e il desiderio di ritornare da lei. Otto anni e la giovinezza che sfioriva tra gli scaffali del piccolo negozio nell’attesa del postino. Qualcuno ci provò a farle cambiare idea, ma lei dava sempre la stessa risposta: voghiu a chiju. Voglio a lui. Tutti e due si erano promessi eterno amore senza i figghi, i figli, perché la parentela di primo grado poteva generare esseri deformi. A cussì si dicia a chiji tempi. Zio Francesco aveva dieci anni più della zia; parti’ giovanotto e tornò uomo emancipato, moderno e con tanti regali: parlava intercalando la lingua spagnola e il suo italiano terminava sempre con la lettera S. Lei parlava il dialetto calabrese restando ‘a stissa piccirija di un tempo, solo che mo aveva 24 anni e la bellezza sfiorita, perché certi fiori se non si coltivano appassiscono e perdono i loro preziosi petali. Si sposarono con una cerimonia commovente e sentita. La zia chiuse il negozio trasformando la stanza in camera nuziale e iniziò il ruolo di moglie andando nell’alivari e, o’ troppìto, (nell’uliveto e nel frantoio) col marito, picchì int’ ‘a terra c’era il loro quotidiano ricco di agrumi e alivi secolari, alti, immensi verso il cielo; preziose piante che offrivano un oro speciale, sostentamento alla vita proprio come nella mia isola, la vite.

Una storia dice che Dio, dopo l’uomo creò l’ulivo; infatti, la colomba, nel suo volo dopo il diluvio tornò da Noè tenendo nel becco un ramoscello di tale pianta.

Lo zio Francesco nel tempo lasciò sola la zia un’ultima volta non per volontà sua, che aveva ancora tanto entusiasmo da vendere, ma arrivò la morte e ‘a zia no potia fare nenti oltre a jiàngiri. (piangere).

Oggi la zia Concettina ha 86 anni con problemi di salute e convive con l’ossigeno. Sta tutto ‘o jorno seduta sulla poltrona dallo schienale alto, un plaid sulle gambe e i piedi poggiati su di un cuscino per tenerli caldi. E’ curata con affetto dai parenti e se vuole vedere il suo mondo, gira gli occhi celesti verso la porta finestra della cucina; oltre il grande albero di cedro, c’è la campagna vissuta intensamente con Francesco detto Ciccio, protetta all’orizzonte dall’Aspromonte e poco verso destra, il mare. La zia Concettina mi chiama -‘a PaRma- e mi invita a restare là nella terra degli ulivi, ma anch’io guardo l’orizzonte dalla sua porta finestra e vedo il mare … lo scruto e con altro sentimento ne raggiungo un altro.

Palma

Con gratitudine alla terra degli ulivi.