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"Il passerotto del Giglio", ricordo di Giuseppe Ulivi
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"Il passerotto del Giglio", ricordo di Giuseppe Ulivi

Babbo lo hanno conosciuto in molti, forse tutti. Sindaco, sindacalista, appassionato di politica e pesci, ma ancor più della gente, della sua gente isolana. Tra i suoi mille scritti ne scelgo uno insolito, per ricordare qui, ad un anno dalla sua scomparsa, il suo aspetto più tenero, lo stupore gioioso per la vita, lo sguardo poetico del  fanciullino sempre presente. E, sopra ogni cosa, il suo grande amore per il Giglio, che ci accomuna.

Loredana Ulivi

Il passerotto del Giglio, luglio 2004 di Giuseppe Ulivi

Al Giglio lo chiamiamo Zì-zì, un passerotto piccolo piccolo, il cui canto è onomatopeutico. Delizioso. S’è installato con il suo piccolo nido sotto il soffitto del mio patio, sopra un faretto che, ahimè, non posso più accendere per buona parte dell’estate. È lui che comanda. È sicuro lì il mio Zì-zì. Quando piove né lui, né la sua compagna, né i suoi piccoli si bagnano. E quando tira quel maledetto vento di scirocco che a me impedisce di osservare una mitica natura, con il mare cangiante ogni minuto, con le barche nel golfo, grandi barche in verità; ma anche piccole barche vogliose di dimostrarsi grandi come le altre perché hanno marinai più coraggiosi. Quando tira vento di scirocco, dicevo, Zì-zì se ne sta beato nel suo angolo in alto del patio. Ed io sono furioso perché non posso stare sotto il patio. Lui sì. Mi ritiro nella mia stanza perché non posso resistere al vento, vento stupido e falso, umido e appiccicoso. Che rabbia: lui, il mio Zì-zì, tranquillo e sereno, ogni tanto il capino che guarda di qua e di là sembra sorridermi; sornione. Mi viene voglia di scacciarlo in quel momento. Poi la tenerezza mostra la sua forza. Cala lo scirocco. Ridiventiamo amici. Ma io mi arrabbio di nuovo. Perché la mia isola, più splendida di così non può essere, nemmeno quelle che si credono chissaché, piena di giallo, di verde, di rosso, di viola. L’arcobaleno impallidisce. Così bella, così offesa dalle turbe vocianti, umidicce, madide di olezzi che di certo non sanno di lavanda. E così offesa dai rumori inutilmente elevati. Il mio Zì-zì se n’è accorto in tempo. Prima di me. L’altra sera mi ha salutato volteggiandomi sulla testa. M’è sembrato un po’ triste. Poi se n’è andato. Forse in continente. Nell’aspra e dolce maremma.