PAPPAGONE
Alle 7.30 il sole aveva già superato il promontorio e la giornata sembrava già ostaggio del caldo. "Dove è Che Guevara?", mi chiese Pappagone. Rimasi un attimo a pensare. Poi, ancora con gli occhi chiusi, risposi: "E chi è Che Guevara?" Pappagone si fermò un attimo a guardare verso il mare. "Oggi è sciroccaccio. Maledetto!!". Poi si asciugò la fronte e quel ciuffo ritto con una pezzola di indubbia pulizia e rispose leggermente sogghignando: "Non sai chi è Che Guevara?". E continuò: "E' Settimo del Grottino". Prima la luce negli occhi gli brillò in un modo anomalo, poi scoppiò in una risata scomposta tanto da tirarmici dietro. Finimmo tutte e due con le lacrime agli occhi. Era bravo a regalare le giuste caricature e Mario del Grottino, rinforzo stagionale di qualità del comune, appoggiato alla scopa di fronte al sole, sembrava una foto del vecchio CHE mentre si riposava nella giungla appoggiato al suo fucile, dopo aver combattuto l'ennesima battaglia per la libertà.
E Pappagone era diventato Pappagone, non solo per quell'aria un po' goffa e ingenua, ma anche per quelle battute che calzavano, spesso, a pennello. Quindi, montò sull'ape Ape 50 truccata e mezza scassata, accese il motore che scoppiò rantolando, e prima di andare via mi disse: "Più tardi vengo con il Bambino. Fatti trovare in cima alla strada del castello verso le 9. Poi insieme scendete spazzando tutta la strada fino al porto. Mi raccomando non devi farlo bere o ti taglio i capelli". Eh si. A 19 anni avevo una bella testa di capelli ricci, ma l'idea di sfoltirli con la falce, non mi rendeva assolutamente felice.
Riconosciuto come il lavoratore più anziano, Pappagone, era il capo fra gli spazzini. Per il resto, i modi non erano certo forbiti ed al primo impatto educati, ma erano i modi di uomini semplici e diretti, e soprattutto gli ultimi vignaioli esistenti su tutta l'isola. Quel lavoro, visto la pochissima disponibilità di uomini e il minimo utilizzo di mezzi meccanici, era ormai definito un lavoro eroico per la grande difficoltà di coltivare vigne a terrazze e per l'enorme energia che era necessaria per avere un minimo risultato apprezzabile. Erano uomini che potevi riconoscere dall'odore di zolfo che permeava costantemente il loro corpo, certe volte gonfio dal troppo vino ma d'altra parte fatto di nervi e forza. E loro, un po' ne andavano fieri anche se quell'odore non era certo il massimo. Ma qualche volta, riuscivano ad eliminare l'odore della zolfo almeno per una sera. Erano quelle sere che scendevano nelle loro cantine, e fra amici forestieri e compaesani, complice indispensabile almeno una chitarra o una fisarmonica, tiravano fuori delle straordinarie serate.
Quindi, giunte le 9 del mattino, mi posizionai all'inizio di villa Ginestra e aspettai all'ombra, l'arrivo del famoso Bambino. Ne avevo sentito parlare diverse volte da mio padre, ma realizzai in quel pensiero che non conoscevo nemmeno il suo nome. Come ogni personaggio dell'isola, anche lui aveva la sua storia che si portava scritta sulla schiena, e quello che si diceva di lui, era che parlasse in momenti di estasi, con la Vergine Maria. Quindi, il tempo di godermi un po' d'ombra di un pino secolare e quel filo giusto di vento, che arrivò strombazzando e rollando l'ape di Pappagone. Con se, c'era un anziano esile e segnato in viso, che aveva un sorriso quasi stampato come un ebete. Pappagone scese veloce dall'ape, lo armò di tutto punto con scopa e sacchetti neri di taglia grande e iniziò con le solite raccomandazioni: "Giovanni guardami. Non bere perché mi fai incazzare". Dette un ultimo e profondo sguardo ad entrambi, soffiò di sotto in su al ciuffo bagnato, montò sull'ape e in breve sparì dietro la curva dei limoni.
Adesso sapevo almeno che il Bambino si chiamava Giovanni . Il resto lo avrei scoperto di lì a poco. E senza altri indugi, fu cosi che ruppe il silenzio: "Compa'!! Non ti preoccupare di quello che ha detto Pappagone". Quindi senza altri discorsi, iniziammo a scendere a valle, io spazzando e lui fischiettando. Poi, fatti pochi metri, iniziò una macchietta. Con un fare più che garbato, iniziò a bussare a tutti portoncini di ingresso, chiamando per nome tutti proprietari delle abitazioni, a cui chiedeva un bicchieretto di vino. Prima toccò ad Artemisia detta la sorda, poi Rodolfo detto pisciapoco, e così a seguire Oreste, Benedetta, e Franco e perfino mia zia Maria. Ogni volta, venne via da una singola visita, con minimo un bicchiere di Ansonaco. Io lo seguivo allibito ma divertito, anche se mi toccò fare anche il suo lavoro per tutta la strada. Fino a che arrivammo alla cantina di Aimone, un grande omone tutto rosso in faccia che aveva una grande vigna vicino al porto. Appena il Bambino, con la stessa tecnica, riuscì ad entrare le porte si chiusero, e di lì a poco stranamente arrivarono tutti gli altri isolani che l'avevano ospitato e anche qualcuno di più. Entrarono uno ad uno e per ultimi arrivarono il parroco e lo stesso Pappagone, che prima di entrare mi guardò mostrando un ghigno a metà fra il divertimento e la soddisfazione. Le porte si riaprirono dopo 1 ora e tutti, dopo un vistoso segno della croce, si diressero verso le proprie abitazioni.
Poi uscì il Bambino barcollando e sorridendo con Pappagone che lo teneva per un braccio e dietro il parroco. "Te l'avevo detto di non bere". Poi con un ghigno quasi compiaciuto, salutò il parroco, montò il Bambino sul cassone dell'ape, e ancora scoppiettando girò l'ape verso il castello, e salendo per un po' verso la collina, scomparve nella nebbia che scendeva densa in quello strano giorno di scirocco.
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