Bisogna veramente essere grati al signor Marco Prete di Pistoia per avere segnalato (questa volta finalmente documentata con foto) la presenza della foca monaca all’isola del Giglio.
Avevo già conosciuto, ma solo per sentito dire, questo animale in giovane età, nei racconti di mio padre, che ricordava la forte emozione provata da bambino quando, avvicinandosi con una barca a remi assieme a suo nonno alle loro vigne dei “Puntoni”, vide un “bove marino” fra i filari, che si mangiava l’uva. Accortosi della presenza umana, l’animale fuggì e, rotolandosi sui liscioni di granito, scomparve in mare.
Continuai a sentire citare a lungo il bove marino a proposito degli egagropili, ovvero quelle pallottole fibrose, di colore marrone chiaro e grandi come una noce che si accumulano, a volte in grandi masse, sulle spiagge e sono i residui di una pianta acquatica, la poseidonia, ma che una volta venivano erroneamente indicate come “cacate di bove marino”.
Come noto, la presenza della foca monaca nel Mediterraneo, è ridotta a pochi nuclei, in Turchia (Egeo e Mar Nero), in Grecia (Egeo e Ionio) e lungo la costa africana (Libia, Tunisia, Algeria e Marocco). In Italia viene sporadicamente avvistata a Montecristo (Silvio Bruno -Centro di Studi Ecologici Appenninici- osservazioni personali 18-23 Maggio 1974), in Sardegna nel golfo di Orosei e nella zona di Capo Caccia, a nord di Alghero.
A onor del vero, la presenza della foca monaca anche all’isola del Giglio, in tempi relativamente recenti, era stata segnalata numerose volte. Nel 1973 un noto pescatore di Giglio Porto, smagliando le reti su un peschereccio nella zona del Capelrosso, vide emergere dal mare la testa di una foca che, a poca distanza continuò ad osservarlo a lungo. Nonostante avesse a bordo una macchina fotografica, non pensò di fotografarla. Nel 1983, un marittimo di Giglio Porto, appassionato di pesca subacquea, nella zona dello “Specchio”, a circa 40 metri di profondità, si trovò davanti un enorme animale scuro, in posizione verticale sul fondo. Spaventatissimo, risalì immediatamente in superficie rischiando un’embolia. Riflettendo poi con maggiore tranquillità e chiedendosi di che tipo di animale si fosse trattato, si rese conto che si era imbattuto in un esemplare adulto di foca, sia per la posizione verticale sia per l’unico particolare che ricordava di aver notato con estrema certezza: un enorme paio di baffi!
Tali segnalazioni le inviai, nel 1986, a Giuseppe Notarbartolo di Sciara, che in un suo articolo pubblicato sul numero 3 del 15 Luglio di quell’anno sulla rivista AQUA, invitò a segnalare avvistamenti della foca monaca all’istituto TETHYS, associazione per la ricerca applicata alla protezione dell’ambiente marino, che all’epoca stava lavorando alla costituzione di un centro per la riproduzione e la reintroduzione della foca monaca nelle nostre acque.
Il sottoscritto, in un volume sull’arcipelago toscano edito nel 1975 dall’editore Tognoli di Antignano (Livorno), nel capitolo sull’isola del Giglio, aveva scritto:

“Le acque che circondano l’isola sono di una nitidezza superba e sono il regno delle più svariate specie vegetali ed animali. Fra queste la foca monaca, o meglio il “bove marino” (come la chiamano i pescatori), e che gli studiosi asseriscono essere ormai estinta in tutte le isole del Tirreno. Ma i pescatori sanno che nei punti più deserti dell’isola, di notte, i “bovi marini”, ancora presenti al Giglio, escono dal mare e si arrampicano sui liscioni di granito, forse essi stessi meravigliati che possano ancora esistere nell’epoca dell’inquinamento, dei luoghi con una natura così aspra, selvaggia, incontaminata”.

Nel 1999, il Circolo Culturale Gigliese, pubblicò un volumetto dal titolo “Morti Cristi spenti lumi”, scritto da Biagio di Bugia che, nel capitolo “Altri animali selvatici”, così ha raccontato la sua esperienza con una coppia di foche monache:

“La foca monaca è ormai in estinzione nel Mediterraneo: ce n’è qualcuna in Sardegna o in Corsica, poi non se ne vedono più in nessun posto. Ma ancora oggi sull’isola, durante il periodo invernale, se ne notano due meravigliosi esemplari. Forse sono un maschio e una femmina, senza dubbio sono foche molto vecchie e molto furbe perché altrimenti non sarebbero potute sopravvivere alla mano dell’uomo.
L’isola è un habitat ideale per loro, tant’è vero che in passato c’erano parecchi esemplari e i pescatori, ma soprattutto i contadini, gli avevano dato il nome di “bove marino”, perché durante il mattino o la sera tardi quando venivano a riva, sugli scogli, esse si spingevano all’interno dell’isola fino ad arrivare nelle vigne per poi rotolarsi per terra.
Ho sentito molte volte questa storia da vecchi contadini; mi sembrava quasi una favola, ma in realtà era proprio così. Un giorno di fine dicembre del 1993, in località “Scoglio di Pietrabona”, un posto a mezzogiorno dell’isola e precisamente sugli scogli dell’ “Archetto”, dove un fosso d’acqua dolce durante l’inverno scorre e si accumula della sabbia e gli scogli sono pianeggianti, esse si sono spinte fin lì per rotolarsi dentro la sabbia, che era tutta sottosopra perché veniva mescolata con le pinne ed il muso ed era tutta bagnata e piena di sterco.
Poi per qualche anno non si sono più viste; ero rimasto nel dubbio che qualche peschereccio le avesse prese con le reti per i pesci spada oppure che, mangiando i pesci presi nelle reti o nei tramagli, le foche, insieme al pesce, avessero ingoiato anche un pezzo della rete di nylon che (non riuscendo a digerirla) taglia loro le interiora. Questa infatti è stata la causa per cui molte di quelle bellissime creature sono scomparse.
Ma un bel giorno del ’96 sono ritornate; questa volta, sempre a mezzogiorno dell’isola, ma sopra le vasche di acqua che il mare tiene piene quando ci sono delle grosse mareggiate. Erano a circa due metri di distanza l’una dall’altra e rivolte con il muso verso il mare; mi sono avvicinato a circa 50 metri, ma al minimo rumore se ne sono accorte e con dei ruggiti strani si sono tuffate in mare.
Non le ho più viste, ma sono sicuro che sono ancora intorno all’isola, perché quest’anno, ormai pratico dei luoghi che frequentano e sapendo che lasciano in terra dei segni particolari, so che non si sono allontanate di molto; infatti a fine gennaio del ’96, nella cala a sud-ovest dell’isola e precisamente “Cala di Pietrabona”, a poche centinaia di metri dallo scoglio stesso da cui prende nome la cala, c’erano tracce dello stesso tipo di quelle dell’”Archetto”, dove qualche anno prima si erano rotolate nella sabbia e quindi sino sicuro che ancora oggi sono nei dintorni.
Quello che più dobbiamo sperare è che non rimangano vittima dell’uomo, perché sarebbe proprio una grande perdita, immane, senza rimedio”.

Armando Schiaffino   -   Presidente Circolo Culturale Gigliese