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L'isolano Mensun Bound alla ricerca di un nuovo relitto
L'isolano Mensun Bound alla ricerca di un nuovo relitto

Se c’è un relitto in fondo al mare, prima o poi a cercarlo ci sarà Bound, Mensun Bound. Il celebre archeologo marino tre volte isolano, perché nato nelle remote isole Falkand, residente in Inghilterra nella dotta Oxford e gigliese d’adozione. Uno che il mare, insomma, se lo porta dentro.

Le sue avventure alla ricerca di relitti e tesori sono talmente importanti che in tanti ne hanno scritto e ne scriveranno. Anche se la sua prima esperienza è legata al recupero del relitto di quella nave corinzia o greco orientale che 600 anni prima di Cristo andò a inabissarsi alla secca dei Pignocchi, all’Isola del Giglio. Nei primi anni ’80 organizzò una prima campagna scavi al Giglio, finanziata dalla Università di Oxford, da mecenati inglesi, tra cui il principe Filippo di Edimburgo e, in parte, anche dai fondi privati che Mensun e la sua futura moglie Joanna misero insieme vendendo quel che avevano (“eccetto la mia libreria archeologica e il suo pianoforte”). Da quel momento furono attivate tre campagne durante le quali per la prima volta vennero sperimentati nei nostri mari computer da immersione e metal detector.

Grazie a lui iniziò anche la caccia ad un elmo trafugato venti anni prima da quel relitto, di valore inestimabile, e finito in Germania. Bound, senza scoraggiarsi, cominciò a cercare finché non lo ritrovò ad Amburgo, perfettamente ripulito e ben conservato, custodito in una cassetta di sicurezza nel caveau di una banca. Riuscì perfino ad indossarlo. Poi, ne perse le tracce e a niente sono valse le ricerche congiunte della polizia italiana e tedesca e gli appelli lanciati tramite televisioni e giornali.

Oggi, il grande archeologo del mare è invece alle prese con un’altra nave, il cui nome evoca il fascino delle avventure e dell’impresa leggendaria. A bordo della SA Aguilhas II, infatti, sta provando a farsi largo tra i ghiacci del Polo Sud per raggiungere le coordinate dell’inabissamento della Endurance, la barca dell’eroico capitano Ernest Shackleton che aveva come missione la traversata del continente antartico. Il compito è ritrovare il relitto che nel novembre del 1916 venne stretto tra i ghiacci e costrinse l’equipaggio ad abbandonare la nave e cercare salvezza prima sulla banchisa e poi sull’isola Elefante. Toccò allo stesso Shakleton insieme a cinque uomini cercare aiuto e dirigersi verso l’isola Georgia del sud. Da lì, dopo quattro tentativi andati a vuoto, riuscì a recuperare il resto dei suoi uomini.

Quella spedizione, pur nell’insuccesso, è divenuta talmente leggendaria che ancora oggi il nome del Capitano è sinonimo di coraggio e audacia. Alla sua impresa Franco Battiato ha dedicato una celebre canzone.

Nessuno, però aveva mai pensato a ricercare in fondo al mare, si stima ad oltre 3mila metri di profondità, quel tre alberi di 44 metri, equipaggiato da Sua Maestà per dimostrare al mondo il valore degli esploratori inglesi giusto alla vigilia della Grande Guerra. A detta dello stesso Bound era “la seconda nave in legno più solida mai costruita”.

Adesso, cento anni dopo, tocca all’anglo-gigliese Mensun Bound l’onore di ritrovare il relitto che, a quelle temperature e profondità, dovrebbe essere stato preservato dall’azione degli organismi marini che degradano il legno. Tra gli strumenti a disposizione una moderna tecnologia con veicoli sottomarini autonomi in grado di sondare e fotografare i fondali. Per lui, cresciuto in Uruguay con studi a New York, una cattedra a Oxford, che ha navigato per i mari del mondo e si è immerso in ogni angolo degli abissi con missioni degne di Indiana Jones, siamo sicuri non sarà un problema.

Michele Taddei