arcobaleno palma silvestri isola del giglio giglionews
Le scelte del cuore al Giglio, nel tempo del Ventennio fascista

LE SCELTE DEL CUORE AL GIGLIO, NEL TEMPO DEL VENTENNIO FASCISTA

Un vecchio ritrovamento. Un foglio di carta da lettere accartocciato, schiacciato dal dorso di un cassettino del canterano e rimasto là non si sa come per anni, evidenzia a penna stilografica, luogo e data: Porto Santo Stefano, 16 settembre 1938.
La lettera, indirizzata ad un uomo, è scritta e firmata da una donna gigliese che parla in termini dispregiativi della moglie dell’uomo appena deceduta per aborto procurato e che viene così definita: Essere indegno.

Una faticosa crescita del valore e dell’importanza della donna nella vita letteraria, sociale, politica, così come negli aspetti psicologici, l’uguaglianza di scegliersi reciprocamente tra uomo e donna, marito e moglie, sono frutto di lotte, lungo i secoli, di Grandi Donne, che hanno scritto e manifestato nelle piazze per portare l’emancipazione femminile sino ai giorni nostri.

Per tale emancipazione, c’è stato un periodo buio nella storia italiana: uno stallo a retrocedere portato dall’ideologia fascista e sentenziato da un ministro, che nel 1934 scriveva: “La donna non desidera più i diritti per cui lotta, […] Nella famiglia la donna è del marito ed è quel che è in quanto è di lui”.
Per le donne iniziò così un percorso a ritroso che le relegò esclusivamente al ruolo di mogli e madri.

Aggiungendo brevi colloqui intercorsi tra me e le anziane paesane negli anni e le storie, anche fantasiose, ascoltate seduta sul murello della Porta, oggi a quel ritrovamento, mi appiglio con il forte desiderio di rivendicare l’umano calvario, avvenuto nel pieno del ventennio fascista, della povera castellana incriminata.

In quel tempo, gli abitanti appartenevano soltanto all’isola; la terra, il granito, il mare, rappresentavano il loro album personale di vita.
Era il tempo della simbiosi con la natura che si ripeteva da secoli. Dalla cima dei colli al limite del mare, le terre respiravano il sudore di chi le lavorava.

In codesto tipo di società, spesso non c’era spazio per creare incontri giovanili di passatempo; solo fatica, pure se mal pagata e sfruttata alle cave, al pascolo, alle vigne, oppure sui vapori solcanti mari lontani.
Le fanciulle, dopo le faccende, ricamavano dalle suore, o, a casa, davanti alla finestra sognando l’amore.

I figli erano proprietà dei genitori, nessuna libertà, nessuna fiducia; dopo la scuola elementare, per le femminucce, tranne alcune rare, che innalzavano la loro volontà come fa il fiore tra l’erba del trifoglio, la via aperta era prepararsi il corredo in attesa di un matrimonio.
Un senso del dovere molto forte e la coscienza volta alle regole della religione, ha impedito alle più, di fare le scelte del cuore. Di vivere il primo amore.
Le uniche finestre di evasione, si aprivano con le feste del patrono Mamiliano e carnevale, vissute appieno come comandava il calendario: ogni ora, ogni minuto dell’attesissimo tempo ludico, veniva sfruttato ballando e cercando l’innamorato. Le assonnate madri, sedute ai lati su panche di legno, stavano con occhio vigile nella sala da ballo - I Lombi - controllando attente e preoccupate.
Nella terra del mare e del sole, si poteva nascere per vivere in spensieratezza le emozioni della giovinezza e quindi del primo amore, ma il duro quotidiano e l’eccessiva protezione da parte delle famiglie, lo impedivano; i giovanotti, tenevano il collo e gli occhi rivolti alla terra, alla marra e intanto, schiacciavano il sentimento dell’amore nascente, tra le zolle.
Anche il giovane Giuseppe, viveva in simbiosi con l’ambiente.
Tale tempo è riferito al primo ‘900 in cui gli uomini si alzavano prima del levar del sole, per rientrare dalle vigne dopo il tramonto, si, che, per mettere su famiglia, adocchiavano per un po’ di tempo una ragazza, poi la fermavano com’è successo ad Assunta la portolana, al Bottaio, mentre scendeva la mulattiera romana che portava alla Marina.

Quel giorno, volendo incontrare lungo quel sentiero la giovanotta che aveva conosciuto di sfuggita al Porto, il nostro Giuseppe, detto, Peppe, si fece trovare con una balla di fieno sulle spalle, e, guardandola dal basso in su la chiese in moglie: Oh Assu’ mi vuoi sposa’?
E Assunta, mora, piccoletta, dal sorriso che metteva allegria, arrossendo rispose si, mentre vergognosa, aumentava il passo verso la famigliare discesa.
Così, due anime sconosciute nell’intimo, si accasavano per tutta la vita senza vivere il tempo dell’amore perché “quel tempo” era lontano dalle loro giornate.

Una realtà esistita, dove schiarite sono iniziate negli anni ‘50 con l’avvento della televisione, che aprì gli occhi e la mente a chi venne dopo le nostre care e importanti isolane.

Il sentimento che toglie il respiro e ti spacca il cuore per i veloci battiti, chi lo viveva in quell’epoca? Forse tutte, ma la vita aveva già un percorso stabilito: casa, marito, figli.
Il senso del peccato inculcato, attaccato alla coscienza come la lampata allo scoglio, il timore di una punizione, uccidevano gli intenti. Farsi vedere innamorate era quasi un reato, un peccato da confessare al prete, e tra abbracci segreti, pianti, bigliettini nascosti, raramente i giovani amori vincevano, anzi, crollavano per la gelosia delle madri o la futile inimicizia tra famiglie che ingigantivano il fatto a dismisura.

Un vero matriarcato, dirigeva come un maestro d’orchestra l’andamento dei figli e non erano mai sinfonie, ma suoni stridenti, diretti soprattutto alle femmine, spinte ad accasarsi.
Poi fatti loro.
E in molte coppie, una volta assolto il dovere del matrimonio, paravento della serietà morale, sono avvenuti incontri trasversali, si sono scoperte le famose affinità elettive simili a quelle del primo amore non vissuto.
In tutti noi avviene il risveglio della primavera dell’amore; risveglio da non sottovalutare e capire che le scelte, subite da una rigida mentalità, tornano a galla difficili alla rinuncia portando conseguenze anche drammatiche. La giovane donna incriminata nella lettera, una nostra ava, una nostra amica, sposa e madre, è drammaticamente deceduta perché ha voluto vivere quell’amore ritrovato, rimanendone vittima.
Nessuno, dimostrando un gesto di umana comprensione, le aprì le braccia.
Rimasta sola, nel turbinio di disperati sentimenti e schiacciata dai sensi di colpa elargiti dalla mentalità dell’epoca, (arrivata anche sull’isola del mare e del sole), la nostra ava, gestisce il suo corpo come una vergogna da sopprimere. E ne muore.
Povera vittima simbolo di un periodo scuro e orribile per tutte le donne, emancipate e non.

Era il 16 di settembre del 1938; nell’aria, per i vicoli di Giglio Castello, si sentivano ancora gli allegri echi dei fochi, i botti sparati la notte prima in onore del santo patrono Mamiliano.

Palma Silvestri
Foto di copertina di Palma.